Davide Astori, ricercatore universitario, P.P. e socio del Rotary eClub Esperanto (Distretto 2050).
Al volgere del secolo XIX il mondo vive un momento di grande fermento, pervaso di ottimismo e positività: per un Novecento che sarà ‘mondiale’ già agli occhi dei contemporanei, in una sorta di globalizzazione ante litteram che avrebbe dovuto guadagnare all’umanità la pace universale e un ritorno (se non meglio, un raggiungimento) all’età dell’oro (basti pensare allo spirito e agli intenti delle conferenze dell’Aja), uno scritto come The Wonderful Century, del biologo darwinista Alfred Russel Wallace, è indicativo, nel 1898, del clima di debordante entusiasmo verso il progresso che informa gli inizi del nuovo secolo. Nel 1900 (anno di pubblicazione del Witz di Freud, per fare un solo esempio) si fonda l’Association internationale des Académies, mentre il telefono e il telegrafo iniziano una prima sorta di globalizzazione, almeno nell’àmbito della comunicazione. All’Esposizione Universale di Parigi, quella in cui si celebra l’elettricità come la nuova energia misteriosa, materialmente e simbolicamente ìndice del trionfo illuminista della luce sulle tenebre, il ministro del commercio Alexandre Millerand (sottesa l’idea che l’uomo possa vincere tutto, natura inclusa) affermerà – nella traduzione di E. Gentile, Il Novecento: dal secolo breve alla modernità liquida, Roma 2008, p. 4 – che mentre crescono all’infinito l’intensità e la potenza della vita, la stessa morte indietreggia davanti alla marcia vittoriosa dello spirito umano, il male afferrato alle sue origini, isolato, cede, ed ecco che compare all’orizzonte l’epoca felice nella quale le epidemie che devastavano le città e decimavano i popoli non saranno più che dei ricordi spaventosi, come le leggende del passato.
Nel clima di quell’Occidente che, sulla scia del libero pensiero settecentesco, già da tempo andava sintetizzando una cultura mondiale di tolleranza, rispetto, volontà di comunicazione, da un lato si vara la grande utopia di Paul Harris, dall’altro quella di L.L. Zamenhof: nello stesso anno, il 1905, si celebra in Europa il primo congresso mondiale esperantista, mentre dall’altra parte del pianeta, al di là dell’Atlantico, a Chicago, si fonda il primo Club Rotary (ponendo le basi di quello che sarebbe stato uno fra i più felici esperimenti di internazionalizzazione dell’ultimo secolo), in una coincidenza significativa, che permette di raccontare una storia parallela e, per molti versi, comune, ricca di potenzialità sinergiche che da allora si sono andate sviluppando, come vedremo, fino alla più piena contemporaneità.
Se della prima il lettore rotariano tutto sa (o almeno dovrebbe sapere) spendiamo qualche parola sulla seconda.
Ludwik Lazarus Zamenhof
1. Esperantujo, terra di convergenza e d’incontro fra lingue, culture e religioni: il progetto di una lingua ausiliaria internazionale come strumento di comunicazione e comprensione interculturale.
Stimati signore e signori! Vi saluto, cari samideanoj, fratelli e sorelle della grande famiglia umana di tutto il mondo, che siete convenuti da terre vicine e lontane, dalle più diverse nazioni del mondo, per stringervi la mano nel nome della grande idea che tutti ci lega. Saluto anche te, gloriosa terra di Francia, e te, bella città di Boulogne-sur-mer, che avete voluto offrire ospitalità al nostro Congresso. E grazie di cuore anche a tutte le persone e istituzioni di Parigi, che durante il mio passaggio in quella gloriosa città hanno – a me indirizzandosi – espresso il loro favore alla causa dell’Esperanto, ossia il signor ministro della Pubblica Istruzione, il consiglio comunale di Parigi, la Lega Francese per l’Istruzione e i molti eminenti scienziati di tutte le discipline.
Così inizia il Discorso programmatico tenuto dal creatore della lingua esperanto al primo Congresso Universale a Boulogne-sur-mer, tre ore di treno da Parigi sul passo di Calais: alle otto della sera del 5 agosto 1905, nel teatro cittadino allestito come fosse una prima – accanto alla francese una bandiera tutta verde, con una stella verde a cinque punte in un riquadro bianco nell’angolo in alto verso l’asta: a “risuonare” è, appunto, la lingvo internacia, progetto di lingua artificiale a posteriori elaborata da L.L. Zamenhof cui, sotto lo pseudonimo di Doktoro Esperanto (“il dottore che spera”), aveva dato ufficialmente i natali con la pubblicazione, nel 1887 a Varsavia, del Meždunarodnyj jazyk. Predislovie y polnyj učebnik, il primo manuale di presentazione della sua nuova “creatura”.
In un sabato di sole, dopo quasi vent’anni di preparazione del progetto, si concretizzava un grande sogno: un popolo internazionale e intranazionale, conosciutosi e formatosi quasi esclusivamente per posta e su testi letterari, iniziava un cammino non più teorico nelle pieghe concrete del mondo. Ludwik Lejzer Zamenhof era nato nel 1859 a Bialistok, oggi in Polonia, una cittadina all’epoca sotto il dominio zarista, da una famiglia di origine ebraica. L’idea di una lingua universale lo aveva accompagnato dalla giovane età liceale, quando, insieme a qualche amico, andava alla ricerca di un mezzo di comunicazione per l’intera umanità: un’esigenza sentita sulla propria pelle, nelle lotte etniche della sua terra natale, ma che certo trovava un humus culturale profondo e attivo in tutta l’Europa di fine Ottocento.
Il progetto esperantista si radicava senza ambiguità in tale tentativo di nuova koiné socio-culturale, con un’intuizione geniale di Zamenhof: quale più efficace strumento di una lingua universale si poteva pensare per avviare un discorso più ampio, culturale e religioso? L’ambizioso progetto del Doktoro Esperanto poteva contare su profonde correnti dell’intellettualità europea: non a caso se ne interessarono da subito personalità quali Tolstoj a est e Chaplin senior a ovest, e l’intellighenzia francese, quella che nella sera di sabato 5 agosto 1905 sedeva in parte nel teatro di Boulogne-sur- mer, aveva da subito abbracciato e lanciato quel progetto solo all’apparenza utopico.
Santo è per noi questo giorno. Il nostro convegno è modesto; il mondo esterno non ne sa molto e le parole che vi vengono pronunciate non volano per telegrafo a tutte le città e i Paesi del mondo, non si sono radunati né re né ministri per cambiare la carta politica del mondo, non brillano abiti sontuosi né profluvio di alte decorazioni nella nostra sala, non risuonano colpi di cannone intorno alla casa modesta in cui noi ci troviamo; ma per l’aria di questa sala volano dei suoni misteriosi, suoni molto tenui, non udibili dall’orecchio, ma avvertibili da ogni animo sensibile: sono i suoni di qualcosa di grande che ora sta nascendo. Per l’aria volano misteriosi fantasmi; gli occhi non li vedono, ma l’animo li sente; sono le immagini di un tempo futuro, di un tempo del tutto nuovo. Questi fantasmi voleranno via nel mondo, prenderanno corpo e si fortificheranno, e i nostri figli e nipoti li vedranno, li sentiranno e ne godranno.
“Ludovico fece una pausa – immagina Vitaliano Lamberti, nella spendida biografia romanzata contenuta in Una voce per il mondo, Mursia, Milano 1991 – si sentiva la gola serrata e il suono della sua voce gli pareva così strano … Era la prima volta che parlava in pubblico in Esperanto. Lo capivano? Il silenzio nella sala era grande e provava un’intensa attenzione dell’uditorio”. Più di tremila, fra samideanoj (lett. “persone che condividono lo stesso ideale”) e curiosi, ascoltavano, quella sera, un omino minuto, gli occhiali e una tuba nuova fiammante, mentre i “mille sguardi […] dalla platea e dai palchi facevano di lui il loro fuoco. […] Proseguì rinfrancato – schiarendosi la voce”, fondando il futuro del suo sogno sul mito potente della Torre di Babele, archetipo radicato nella natura più profonda e intima dell’uomo:
Nella più remota antichità, che già da lungo tempo è svanita dalla memoria degli uomini e di cui nessuna storia conserva il benché minimo documento, la famiglia umana si frantumò e i suoi membri cessarono di comprendersi fra di loro. Fratelli creati tutti secondo la stessa immagine, fratelli che tutti avevano uguali idee e uguale Dio nei loro cuori, fratelli che dovevano aiutarsi l’uno con l’altro e lavorare concordemente per la felicità e la gloria della loro famiglia – quei fratelli diventarono del tutto estranei fra di loro, si dispersero, forse per sempre, in gruppetti nemici e tra di loro cominciò un’eterna guerra. Nel corso di molti millenni, nel corso di tutto il tempo che la storia umana ricorda, quei fratelli non han fatto che combattersi, e nessuna comprensione era affatto possibile fra loro. Profeti e poeti sognavano di un felice, nebuloso, lontanissimo tempo futuro, in cui gli uomini avrebbero ripreso a comprendersi e di nuovo si sarebbero riuniti in una sola famiglia; ma si trattava solo di un sogno.
Si parlava di ciò come di una dolce fantasia, che nessuno prendeva sul serio, cui nessuno credeva.
La storia dell’idea di pianificazione linguistica porta lontano, e negli inizi del Novecento trova terreno fertile di sviluppo: fondata a Parigi il 17 gennaio 1901 a seguito della Exposition che aveva pure sensibilizzato al problema della comprensione internazionale, la Délégation pour l’adoption d’une langue auxiliaire internationale, che propugna l’idea di una lingua ausiliaria internazionale e intende determinarne i criteri (la Declaration contenuta in L. Couturat-L. Leau, Histoire de la langue universelle, Hachette, Paris 1903, pp. xix-xx, sarebbe tutta da rileggere e meditare), nel 1907 riconoscerà (al comitato prendono parte, fra gli altri, linguisti del calibro di Jespersen, De Courtenay, Schuchardt, Ostwald e, almeno epistolarmente, Meillet) la validità dell’Esperanto, anche se in forma revisionata, mentre parallelamente all’American Philosophical Society e al riconoscimento del tema da parte di altre realtà internazionali (dall’International Research Council, con sede a Brussel, alla British Association for the Advancement of Science), un ruolo peculiare si guadagnerà, a iniziare dagli Anni Venti, l’International Auxiliary Language Association (IALA), che opererà con ininterrotto fervore dal 1924 al 1953. La necessità di una lingua comune si impone, nel primo quarto del secolo, in una tale imprescindibilità che la Società delle Nazioni arriva addirittura a discutere un ordine del giorno che avrebbe dato all’Esperanto un riconoscimento di tutto rilievo: accanto a quello ufficiale della Croce Rossa alla decima Conferenza internazionale del 1921, dell’Unione Universale dei Telegrafisti nel 1925, in una carrellata di successi nei settori più diversi (dai mass media, al commercio, alle scienze), il 20 settembre 1924 il consiglio generale della Lega delle Nazioni adotta all’unanimità la seguente resoluzione, riportata nella traduzione di E. Privat, Historio de la lingvo Esperanto. Parto I: Deveno kaj komenco 1887-1900, Haag 1923: «La ĝenerala kunveno de la Ligo de Nacioj rekomandas, ke la Ŝtatoj, membroj de la Ligo, konsentu al Esperanto la traktadon kaj tarifojn de lingvo ‘klara’ en telegrafaj kaj radiotelegrafaj interrilatoj, kiel praktika helpa lingvo de la internaciaj interkomunikoj flanke de la naciaj lingvoj uzataj, kaj atentigas je tiu celo la organizon pri komunikado kaj transito».
Ma torniamo al discorso di Zamenhof.
E ora, per la prima volta, il sogno di millenni comincia a realizzarsi. Nella piccola città della costa francese sono convenuti uomini delle più diverse terre e nazioni; ed essi si incontrano non come muti e sordi, ma si comprendono l’uno con l’altro, si parlano l’uno con l’altro come fratelli, come membri di una sola nazione. Spesso si riuniscono a convegno persone di nazioni diverse e si comprendono tra di loro; ma quale immensa differenza esiste fra il loro comprendersi e il nostro!
Là si comprendono soltanto una piccolissima parte dei convenuti, che hanno avuto la possibilità di dedicare moltissimo tempo e moltissimo denaro all’apprendimento delle lingue straniere. Tutti gli altri partecipano al convegno solo col loro corpo, non con la loro testa: mentre nel nostro convegno si comprendono l’uno con l’altro tutti i partecipanti. Chiunque ci comprende facilmente, soltanto che desideri comprenderci; e né povertà, né mancanza di tempo chiudono ad alcuno gli orecchi per le nostre parole. Là, la comprensione reciproca si ottiene in modo non naturale, offensivo e ingiusto, poiché là il membro di una nazione si umilia davanti al membro di un’altra, parla la lingua di lui disprezzando la propria, balbetta e arrossisce e si sente in inferiorità davanti al suo interlocutore, mentre questi si sente forte e fiero; nel nostro convegno non esistono nazioni forti e deboli, privilegiate e non privilegiate, nessuno si umilia, nessuno si sente inferiore; noi tutti stiamo su un fondamento neutrale, noi tutti abbiamo gli stessi identici diritti; noi tutti ci sentiamo membri di una sola nazione, membri di una sola famiglia, e per la prima volta nella storia dell’umanità noi – membri dei più diversi popoli – stiamo l’uno accanto all’altro non come stranieri, non come concorrenti, ma come fratelli che, non imponendo l’uno all’altro la propria lingua, si comprendono tra loro, non hanno sospetto l’uno dell’altro per una oscurità che li divide, si amano l’un l’altro e si stringono la mano non ipocritamente, come straniero a straniero, ma nella sincerità, come uomo a uomo. Dobbiamo dunque essere ben consapevoli di tutta l’importanza del giorno presente, perché oggi, tra le mura ospitali di Boulogne-sur-mer, si sono riuniti non francesi con inglesi, non russi con polacchi, ma uomini con uomini. Benedetto sia il giorno, e grandi e belli siano i suoi risultati!
“Tutti gli occhi dei convenuti – prosegue il racconto di Lamberti – erano fissi su di lui – lo sentiva, come una forza che lo sollevava da terra, che lo faceva crescere come un gigante – lui piccolo uomo dal cuore traboccante d’amore”. Quel cuore di cui aveva messo in strofi saffiche le ansie e le paure a ridosso del Congresso, quasi ammiccando ai celeberrimi versi archilochei:
Ho, mia kor’
Ho, mia kor’, ne batu maltrankvile,
El mia brusto nun ne saltu for!
Jam teni min ne povas mi facile,
Ho, mia kor’!
Ho, mia kor’! Post longa laborado
Ĉu mi ne venkos en decida hor’!
Sufiĉe! trankviliĝu de l’ batado,
Ho, mia kor’!
[Oh cuore mio // Oh cuore mio, non battere agitato, / non balzar fuori ora dal mio petto! / Ormai non riesco a controllarmi facilmente, / oh cuore mio! // Oh cuore mio! Dopo lungo lavoro / forse non spuntarla nel momento decisivo! / È abbastanza! Trova la pace dopo la battaglia, / oh cuore mio!]
“Era come se qualcun altro parlasse, lui ascoltava frammisto alle vibrazioni che percorrevano la sala come l’andare e il venire delle onde di un mare che si placava – partecipe dell’essenza di esse …”:
Ci siamo riuniti oggi per mostrare al mondo, con fatti irrefutabili, ciò che il mondo fino a oggi non voleva credere. Mostreremo che l’intercomprensione fra persone di nazioni diverse è pienamente raggiungibile, che per questo non è affatto necessario che un popolo umilii e inghiotta un altro, che le barriere fra i popoli non sono affatto un che di inevitabile ed eterno, che l’intercomprensione fra creature della stessa specie non è un sogno fantastico, ma un fenomeno perfettamente naturale che è stato solo troppo differito a causa di circostanze assai tristi e vergognose, ma che presto o tardi doveva verificarsi e alla fine si è verificato, che adesso muove ancora i suoi primi passi con poco coraggio, ma che, una volta che abbia cominciato a marciare, non si fermerà più e diventerà presto così possente che i nostri nipoti addirittura non crederanno che un tempo era diversamente, che gli uomini, che i re del mondo per secoli non sono riusciti a comprendersi! Chiunque dica che una lingua neutrale e pianificata non è possibile, venga qui e si convertirà. Chiunque dice che gli organi della parola di ogni popolo sono diversi, che ognuno pronuncia a suo modo una lingua pianificata e che coloro che usano tale lingua non possono comprendersi l’un l’altro, venga da noi e, se è onesto e non vuole mentire coscientemente, confesserà di avere sbagliato. Passeggi nei prossimi giorni per le strade di Boulogne-sur-Mer, osservi quanto bene si comprendono l’un l’altro i rappresentanti delle più diverse nazioni, domandi agli esperantisti incontrati quanto tempo o denaro ciascuno di loro ha investito per aprrendere la lingua pianificata, e confronti tutto ciò con gli immensi sacrifici richiesti dall’apprendimento di qualunque lingua naturale – e, se è onesto, vada per il mondo e ripeta a voce alta: “Sì, una lingua pianificata è del tutto possibile, e per di più estremamente facile. È vero che molti di noi ancora non possiedono ancora bene la nostra lingua, e balbettano incespicando invece di parlare fluentemente; ma confrontando la loro difficoltà con la perfetta fluidità di altri, chiunque osservi con coscienza noterà che la causa del balbettamento non risiede nella lingua, ma solo nell’insufficienza di esercizio da parte di dette persone”.
Dopo molti millenni di sordo-mutismo e lotta reciproci, ora a Boulogne-sur-Mer inizia di fatto in massimo grado la comprensione e l’affratellamento reciproci dei membri delle diverse nazioni dell’umanità; e una volta partito, tale processo non si fermerà, ma proseguirà diritto sempre e sempre più forte, finché le ultime ombre del buio eterno si dissiperanno per sempre. Sono importantissimi questi giorni a Boulogne-sur-Mer, e siano benedetti!
Non prima di avere celebrato, a ulteriore legittimazione della fondazione del kvazaŭ-popolo nascente, i martiri del neonato movimento (“Nel primo congresso degli esperantisti è necessario dire qualche parola riguardo chi, fino a oggi si batte per il nostro afero”) dedicando un intero passaggio nel Discorso, il focus di Zamenhof vira dal piano linguistico a quello ideale, in perfetta linea con l’idea dello storico del movimento esperantista Edmond Privat che, affermando come “krei novan lingvon estas kvazaŭ iniciati novan religion”, palesava l’esistenza di un motivo etico alla base del movimento delle origini:
Presto inizieranno i lavori del nostro congresso, dedicato a un vero affratellamento dell’umanità. In questo momento solenne il mio cuore è pieno di qualcosa di indefinibile e misterioso, e sento il dovere di predisporre il cuore con una preghiera, di rivolgermi a quella più alta Forza e invocare il suo aiuto e la sua benedizione. Ma allo stesso modo in cui io, in questo momento, non appartengo a una nazione ma sono solo un uomo, così sento anche che, in questo momento, non appartengo a qualche religione nazionale o partitica, ma sono solo un uomo. E in questo momento innanzi agli occhi della mia anima vi è solo quell’alta Forza morale che ogni uomo sente nel suo cuore, e a questa Forza sconosciuta mi rivolgo con la mia preghiera.
Preghiera sotto il verde stendardo
A Te, potente mistero incorporeo,
grande Forza che regge il mondo,
a Te, grande fonte dell’amore e della verità
e fonte di vita costante,
a Te che tutti presentano diversamente
ma tutti nel cuore sentono allo stesso modo,
a Te che crei, a Te che regni
oggi eleviamo una preghiera.
A Te non veniamo con credo nazionale,
con dogmi di cieco fervore:
scema ora ogni disputa religiosa
e regna solo il credo del cuore.
Con esso, che è uguale in tutti,
con esso, il più vero, combattente senza imposizione,
stiamo ora, figli dell’intera umanità,
presso il Tuo altare.
Hai creato l’umanità in modo perfetto e bello,
ma questa si è divisa in lotta;
un popolo attacca crudelmente un popolo,
il fratello attacca il fratello come sciacallo.
Oh, chiunque tu sia, Forza misteriosa,
ascolta la voce della preghiera sincera,
restituisci la pace ai figli
della grande umanità!
Giurammo di impegnarci, giurammo di lottare,
per riunire l’umanità.
Sostienici, Forza, non lasciarci cadere
ma lasciaci vincere la barriera;
dona bene al nostro lavoro,
dona forza al nostro fervore,
ché sempre contro attacchi selvaggi
rimaniamo coraggiosi.
Terremo altissimo il verde stendardo;
esso indica il bene e il bello.
La Forza misteriosa del mondo ci benedirà,
e raggiungeremo la nostra meta.
Abbatteremo i muri fra i popoli,
ed essi rovineranno rumorosamente
e cadranno per sempre, e Amore e Verità
inizieranno a regnare sulla Terra.
Si uniscano i fratelli, si intreccino le mani,
avanti con armi di pace!
Cristiani, ebrei o maomettani
noi tutti siamo figli di Dio.
Ricordiamoci sempre del bene dell’umanità,
e malgrado gli ostacoli, senza soste e stasi
indirizziamoci ostinati al fine fraterno
avanti, senza fine!
Imprescindibile per Zamenhof era, in chiusura al suo intervento, leggere quella poesia programmatica più eloquente di mille discorsi, nonostante gli stessi amici più stretti lo avessero sconsigliato per questioni di opportunità, in un mondo che andava inesorabilmente verso il baratro dei nazionalismi e di profondi, intransigenti razzismi. La Preghiera sotto il verde stendardo alla fine fu letta, a esclusione però della sesta e ultima strofa che, insieme a quanto di più “interno” era nell’Esperanto, sarebbe dovuta rimanere nelle mani di pochi custodi di una tradizione che avrebbe guidato dall’alto il processo evolutivo dell’Idea, quello Homaranismo (“dottrina che esige che ognuno consideri e ami gli uomini di ogni nazione come propri fratelli”, lo definisce il Plena Vortaro) che porterebbe troppo lontano discutere qui, una sorta di massimo comune denominatore etico-religioso rielaborato in un lungo processo di stesura, prima per pseudonimi, e solo nel 1913 con la piena sottoscrizione del creatore della Lingua Internazionale, nei Dogmoj.
Per abbozzare una sintesi, l’ideazione di una lingua universale, strumento privilegiato di comunicazione per l’umanità, sarebbe dovuta essere, agli occhi del suo inventore, solo il primo passo di una riflessione ben più ambiziosa: l’Esperanto sarebbe stato solo un viatico per il contributo alla creazione, nel mondo, di una cultura comune, di un sentire comune, di una comunione d’intenti. Se l’Esperanto si offriva come pontolingvo, seconda lingua planetaria che – concepita come medium – avrebbe dovuto tutelare le varie altre del pianeta e anzi (paradossalmente) promuoverle, allo stesso modo una nuova cultura mondiale – basata sui fondamenti della tolleranza e della reciproca comprensione – avrebbe contribuito al migliore rapporto fra i popoli offrendosi come terreno comune in cui ognuno, pur nella propria diversità, avrebbe potuto inserirsi in un rapporto rispettoso e costruttivo con gli altri. E il conflitto più aspro fra culture, tema privilegiato e massima preoccupazione di Ludovico Lazzaro, si sarebbe manifestato, alla fine, in ambito religioso: allargando l’ottica e generalizzandone il processo, solo una ponto-religio, nei medesimi termini dell’Esperanto, avrebbe aiutato il progresso dell’Umanità.
L’esperanto oggi
Dei diversi progetti interlinguistici susseguitisi nel corso dei secoli, l’esperimento esperantista è l’unico ad avere mostrato una reale funzionalità, diventando rapidamente, in 125 anni, una lingua sotto ogni aspetto, dal letterario al colloquiale, dallo scientifico al commerciale, dando prova di evolversi come una qualunque altra lingua etnica.
Il movimento contemporaneo conta più di 3.000 delegati impegnati nella sua diffusione, distribuiti in 72 Paesi e rappresentanti 350 categorie professionali o interessi socio-culturali, e accanto agli iscritti migliaia di cultori e simpatizzanti più o meno attivi (attualmente ha un numero di utenti che, a seconda dei vari livelli di capacità di fruizione, oscilla tra alcune decine e alcune centinaia di migliaia fino all’ottimismo degli 8 milioni della Encyclopædia Britannica negli Anni Ottanta): la principale struttura internazionale – il “principale” è d’obbligo, vista la realtà variegata e in perenne fermento del mondo esperantista – è l’Associazione Esperantista Universale (UEA), con sede a Rotterdam, che si dirama a livello nazionale e, più capillarmente, nelle varie regioni e città, affiancata dalla Akademio, massimo ente normativo dello sviluppo linguistico.
Almeno un accenno non si può negare alla notevole produzione letteraria, che ha dimostrato la capacità espressiva e creativa (esprimivo, come si dice in lingua) dell’Esperanto anche in àmbito artistico. Accanto a una produzione originale, che sola costituirebbe l’oggetto di un intero contributo e che contribuisce fortemente alla finalità principale della lingvo internacia di sviluppare una “cultura universale” (la fiorente tradizione letteraria in esperanto è riconosciuta dal “Pen-club internazionale”, che ha ammesso un “Centro Pen esperanto” nel settembre 1993, al proprio 60° Congresso) e spazia dagli autori delle più diverse nazionalità a indicare il cosmopolitismo e l’internazionalità di quell’Esperantujo, Patria transnazionale che si ripromette quella sorta di nuova koinè linguistica, culturale e umana testé delineata, magna pars del corpus letterario è formata da traduzioni, nell’intento di offrire una panoramica d’insieme delle maggiori opere letterarie dell’ingegno umano accessibili all’intero popolo esperantista: più di 10.000 opere tradotte costituiscono una vastissima antologia mondiale, in cui quasi tutti i principali autori della letteratura internazionale sono rappresentati. Questo importante fatto fu un passo effettivo verso tale cultura universale: il popolo de la libroj, come amano definirsi gli esperantisti, si fa dunque ponte anche fra le letterature, in particolare dando voce, su un piano di parità, anche a popoli che rischiano di essere relegati ai margini della cultura planetaria a causa della scarsa conoscenza e diffusione della loro lingua.
In parte offuscati, agli stessi Esperantisti, origini e ideali del Movimento delle origini, fra il dramma di due guerre mondiali e il frenetico evolvere del mondo, l’Esperanto è oggi visto più come una lingua di uso pratico, atta a creare convegni che sono occasioni di incontro, di conoscenza di realtà straniere, di contatti personali da parte di quegli stessi parlanti che poi, paradossalmente, mettono in pratica, almeno a grandi linee, nelle loro dinamiche interpersonali quegli ideali di fratellanza, internazionalità, rispetto per le minoranze che sono uno dei cuori della loro prima matrice, senza però rendersi appieno conto dello spirito che li sorregge.
Limitato da un lato da Boulogne-sur-mer (laicizzato dall’affermazione che l’esperantista è niente più che esperantoparolanto, il “parlante Esperanto”, forte banalizzazione semplificativa di quello che è veramente il seguace del pensiero zamenhofiano) e dall’altro dal Manifesto di Raum degli anni Ottanta (esasperazione della presa di coscienza dell’essere “popolo”), il più vero e profondo progetto utopico del Doktoro Esperanto, che emerge ben chiaro fin dai primi testi, a testimonianza della natura teorica e ideale del projekto, si presenta, tertio millennio ineunte, sempre più attuale in un mondo che il Majstro aveva già previsto nelle sue drammatiche e sanguinose fratture.
Solo una costatazione, avviandoci alla conclusione di questa presentazione. Si è dato, nella sede presente, per scontato da sùbito il fatto che l’esperanto sia una lingua come le altre. Di minoranza, chiaramente, misconosciuta, forse, ma comunque senza dubbio una lingua a tutti gli effetti. E così è stato, probabilmente, durante la Conferenza generale di Montevideo del 1954, quando l’Unesco ne ha riconosciuto i valori culturali ed educativi, posizione rafforzata nella Conferenza generale del 1985, in occasione della quale ha rivolto un appello agli stati membri e alle organizzazioni internazionali per la promozione dell’insegnamento dell’esperanto nelle scuole e per il suo impiego nelle questioni internazionali, e ulteriormente ribadita nel 1997 quando, all’82° Congresso mondiale d’esperanto, portò il saluto lo stesso Direttore generale dell’Unesco, Amadou-Mahtar M’Bow; o all’Accademia delle Scienze dell’URSS, nel 1973, quando l’“Institut de Linguistique”, dopo l’analisi di più di 600 progetti, ha scelto l’esperanto “per la sua superiorità linguistica”; o ancora da parte di chi, accanto all’ONU e all’Unesco (fra cui almeno Unicef, Consiglio d’Europa, ISO-Organizzazione internazionale di standardizzazione) intrattiene con l’UEA relazioni consultive ufficiali e riconosciute. Se allo scettico (che sia o meno linguista) non basterà l’evidenza dell’esistenza di denaskaj (definizione a metà fra l’idea più linguistica di ‘madrelingua’ e quella più socio-politica del ‘sabra’ israeliano), pochi – sembrerebbe solo qualche centinaio – ma frequentabili in carne ed ossa, né il fatto che non pochi (per usare un eufemismo) esperantoparolantoj sono stati perseguitati, deportati e uccisi, esclusivamente per la loro scelta linguistica, dai vari Fascismi del drammatico secolo breve (che evidentemente, in tal modo, ne hanno riconosciuto la reale esistenza), tantomeno interesserà la pagina di Antoine Meillet, allievo del fondatore della linguistica moderna, il ginevrino Ferdinand de Saussure (nel cui Cours la “creatura” di Zamenhof è utilizzata in due diversi passaggi per dibattere più generali questioni linguistiche) e caposcuola della glottologia francese del primo Novecento, che affermò, nel suo Les langues dans l’Europe nouvelle (Paris 19282, p. 268), che “toute discussion théorique est vaine: l’Esperanto fonctionne”, visione perfettamente consonante, per intenti e per forma, alla dichiarazione di André Martinet, tra l’altro già direttore della sopraccitata IALA, espressa all’UNESCO il 16 dicembre 1986:
Bien que marqué par les langues européennes dans son vocabulaire, l’espéranto est une langue qui fonctionne bien; d’une grande simplicité, il a gagné le droit à être la langue auxiliaire du monde entier.
RADE: una voce per il Rotary
Nel 2008, proclamato dalle Nazioni Unite come “Anno delle lingue” proprio a sottolineare l’importanza della comunicazione internazionale, ha creato un certo dibattito l’articolo che “Rotary Contact”, il mensile rotariano belga, ha ospitato sul numero di marzo (pp. 18-19). Joseph van der Vleugel del Club Spa-Francorchamps-Stavelot (Distretto 1630), nel suo Faut-il une langue internationale pour mieux communiquer au Rotary? / Een internationale taal voor een betere Rotarycommunicatie, propone di inserire gradatamente l’esperanto nei club Rotary del mondo, per meglio agevolarne le finalità e le attività internazionali, argomentando la sua proposta sulla base dei criteri dei quattro pilastri etici del RY. La proposta, di primo acchito, potrebbe parere uno scherzo, o una provocazione. Ma così non è.
Come già presentata, quindici anni or sono, al Distretto 2050 su “Rotary” (anno vi, n. 15, giugno 1999, p. 9: “Rotary ed Esperanto. Oltre settant’anni di interesse rotariano per la lingua ausiliaria internazionale”), la Rotaria Amikaro de Esperanto (RADE), rappresentata da una stella verde a cinque punte con infissa la ruota del Rotary International, la prima delle fellowships riconosciute (una storia dettagliata del Gruppo si può trovare qui), raccoglie fin dal 1928 (anno di fondazione, nella simbolica data di luce e di rinascita del 21 marzo, equinozio di primavera, in un periodo in cui il Rotary stava diventando un movimento davvero internazionale, e i problemi linguistici divenivano evidenti), rotariani, esperantisti e simpatizzanti dai cinque continenti intorno agli ideali della lingvo internacia.
Avversata, sulla scia della più generale sorte del Rotary, fra le due guerre, fu rifondata nel 1959 da Norman Williams con il nome che tutt’ora porta, il cui acrostico rimanda, in un brillante gioco di parole, al termine ‘ruota’ in esperanto: ‘rado’. Oggi quasi un centinaio di soci in 15 Paesi, il RADE diffonde un foglio informativo che considera più un forum informativo che un semplice bollettino; così sono definite statutariamente le sue finalità:
La Grupo R.A.D.E., konsistanta el rotarianoj kiuj uzas Esperanton, celas realigi la idealojn de Rotary International por la interkompreno, la amikeco kaj la paco inter la nacioj, faciligi la personajn kontaktojn inter Rotarianoj de malsama lingvo-deveno kaj disvastigi la humanecajn internaciajn servojn de R.I.
Il Gruppo mira a realizzare gli obiettivi del Rotary International di promuovere mutualmente Comprensione, Buona volontà, Amicizia e Pace fra i popoli, perseguire standard etici elevati, facilitare i contatti personali fra rotariani con diverse competenze linguistiche e promuovere i servizi umanitari internazionali del Rotary.
Così l’amico Joseph, la cui appartenenza al RADE ne giustifica il precipuo interesse linguistico, scrive nell’articolo citato (qui tradotto in italiano):
L’assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il 2008 come “Anno internazionale delle lingue”, invitando a rafforzare la loro conservazione e difesa.
Il Rotary International, così come l’ONU, è una istituzione internazionale che rispetta le culture e i diritti di ogni cittadino. Ciò significa che raccomanda l’uso del multilinguismo, ma ciò presenta sfortunatamente delle limitazioni. L’esperanto, lingua creata per essere internazionale, costituisce l’unica soluzione per essere ponte fra le culture.
Il Consiglio di legislazione del 2007 del Rotary non ha recepito la proposta 07-411, presentata dal distretto brasiliano, che raccomanda “un progressivo inserimento dell’Esperanto come lingua seconda, dopo la lingua locale, nelle commissioni internazionali di ogni club rotariano per facilitare la realizzazione di programmi umanitari e culturali, che spesso si scontrano con barriere di carattere linguistico”.
La sola lingua ufficiale del Consiglio di legislazione è stata l’inglese, ma sono stati offerti servizi di traduzione simultanea al francese, spagnolo, portoghese, coreano e giapponese. Al prossimo Consiglio del 2010 si dovranno probabilmente aggiungere lo hindi e il russo, ultimamente accettate. Non c’è dubbio che nel prossimo futuro dovranno essere accettate ulteriori lingue e sarà ingiusto escludere anche una sola di esse.
In conclusione, il RI si trova nella medesima situazione di molte istitutuzioni di natura internazionale: lingua egemonica (l’inglese), affiancata da una molteplicità di lingue nazionali più o meno accettate a seconda della forza economica o politica dei parlanti. Tale situazione è ingiusta da diversi punti di vista, e l’utilizzazione dell’esperanto rappresenta a lungo andare una soluzione logica, a condizione di valutare correttamente i problemi. Per giudicare la proposta di inserire gradatamente l’esperanto come lingua seconda, sembra allora logico applicare i criteri dei quattro principi etici del RI (la prova delle quattro domande):
1. Risponde a verità?
È vero che la diversità delle lingue rappresenta una barriera a una buona comunicazione, e che solo una minoranza trova l’opportunità di apprendere una, due o più lingue straniere. È altrettanto vero che l’esperanto rappresenta un grande vantaggio, poiché l’apprendimento è più facile e meno costoso delle lingue native. Inoltre è una lingua neutrale, che in quanto tale protegge i valori di tutti gli altri idiomi.
2. è giusto per tutti gli interessati?
A costatazione del fatto che noi tutti facciamo lo stesso sforzo per la stessa lingua per poter comunicare su un piano di eguaglianza di diritto, ci impegnamo insieme sulla via del rispetto dei diritti e dei doveri di ciascuno.
3. Produrrà buona volontà e migliori rapporti d’amicizia?
Operare gli stessi sforzi per una migliore comunicazione può solo creare migliori rapporti sociali.
4. Sarà vantaggioso per tutti gli interessati?
Per i monolingui sarà una buona occasione di imparare una lingua più facile, e inoltre l’esperanto rappresenta una finestra per numerose lingue nazionali. I poliglotti non avranno problemi a diventare dei parlanti esperanto. Solo i monolingui anglofoni dovranno rassegnarsi a perdere i propri vantaggi. Tuttavia, abbandonando la loro posizione egemonica, troveranno maggiore apertura alle culture altre e il riconoscimento ammirato di tutti i popoli.
La proposta di inserire gradatamente l’esperanto suscita qui e là il sorriso, probabilmente a causa della mancanza di informazione sufficiente. Perché rigettare una proposta che risponde ai criteri delle quattro domande etiche?
In questo “anno internazionale delle lingue” invito gli scettici a partecipare al Congresso Mondiale di esperanto che si terrà a Rotterdam (dal 19 al 26 luglio [nel 2008, in effetti, anche in RADE vi ha avuto un proprio stand – n.d.r.]). La “lingua internazionale” funziona bene, così come il Rotary International, e dal 1905, anno in cui fu fondato il Rotary e in cui contemporaneamente si tenne il primo Congresso universale esperantista, nel mondo esistono almeno tanti parlanti esperanto quanti rotariani.
In conclusione – per ribadire il ruolo internazionale dell’esperanto anche all’interno di organizzazioni come il Rotary – ecco le seguenti osservazioni sul “perché l’esperanto”:
malgrado le enormi risorse finanziarie che tutti i Paesi del mondo impiegano per l’insegnamento e la traduzione delle lingue, il problema della comunicazione internazionale rimane insoluto, anche considerando le nuove tecnologie.
1. Attualmente gran parte dei rotariani abitano al di fuori delle regioni di lingua inglese, idioma ufficiale del Rotary.
2. Nel Rotary la tendenza, in merito alla comunicazione, è di aumentare continuamente le lingue usate, senza scegliere una sola lingua nazionale, perché vi sono Rotary-Club in 211 Paesi. L’uso attuale di molte lingue nel Rotary International significa correre dietro al problema e non prevedere una soluzione definitiva.
3. Il rispetto dei diritti umani, compreso quello alla propria lingua e cultura, richiede nel prossimo futuro una comunicazione neutrale a livello internazionale, senza egemonie culturali o economiche, allo stesso livello per tutti i popoli di lingua materna differente, per raggiungere e garantire la solidarietà, la giustizia e la collaborazione internazionale senza discriminazioni.
4. Attualmente, nelle Nazioni Unite, un giapponese, un brasiliano, un italiano, un finlandese o un etíope devono formulare i propri pensieri nella lingua di un argentino, di un francese, di un cinese, di un arabo, di un inglese o di un russo. A parte l’evidente discriminazione, perdita di informazioni, difficoltà nell’esprimersi, esiste il grande costo di tale sistema, senza dimenticare gli alti salari dei traduttori e pure i danni al[l’]ambiente, perché tutto è prodotto su carta proveniente da alberi coltivati in enormi monoculture.
5. L’Esperanto, come il telefono, è un ottimo mezzo di comunicazione, come seconda lingua accanto agli idiomi etnici. Essa è meno costosa, perché non costa nulla, è neutrale, facile, chiara, bella, intelligente, logica, e funziona veramente. Essa non ha un “padrone”, e neppure è sostenuta da una potenza economica o politica. Vive in tutti i paesi del mondo nella mente di idealisti, che anticipano il futuro. È la sola lingua che ha creato un popolo, perché abitualmente sono i popoli che creano i propri dialetti, gli idiomi tribali, le lingue nazionali.
6.Tutti i cittadini hanno la propria nazionalità, la propria cultura locale, ma nello stesso tempo sono cittadini del mondo allo stesso livello di tutti gli altri. Essi non debbono sottomettersi balbettando male le lingue degli altri, ma potrebbero comunicare fra loro con una lingua neutrale che tutti possano imparare rapidamente per la sua facilità, per la sua logica e per la sua ideologia rispettando i diritti umani linguistici anche dei piccoli popoli, dei cittadini di paesi linguisticamente deboli.
7. L’Esperanto non offre vantaggi soltanto ad alcuni, ma si armonizza con i fondamentali criteri dei “quattro principi etici del Rotary”, perché è veritiero, giusto, crea una migliore volontà e indubbiamente una migliore amicizia, oltre ad essere benefico per tutti.
8. Il più antico Gruppo di Amici del Rotary International è quello degli Amici [Rotariani] Dell’Esperanto (RADE), che da parecchi anni si incontrano durante i Congressi Mondiali del Rotary o si visitano reciprocamente senza alcun problema di comunicazione.
Il logo del RADE
Rotary ed Esperanto: quale futuro di collaborazione
Nel mondo esistono almeno tanti parlanti esperanto quanti rotariani, sottolineava nel suo articolo van der Vleugel. Molti, e profondi, sono – come visto – i contatti ideali fra l’idealità rotariana e quella esperantista: lotta in favore della democrazia, impegno all’alfabetizzazione, attenzione alla comunicazione e alla collaborazione internazionale, coscienza piena dei valori del rispetto, della tolleranza e del dialogo, tutela di ogni cultura (e, di conseguenza, di ogni lingua), consapevolezza dell’importanza dello scambio (allo stesso tempo di uomini e di idee), lungimiranza per un futuro sostenibile (dall’ecologia tout court all’ecologia linguistica).
Non stupisce allora che l’interesse reciproco che le due grandi Realtà in questa sede raccolte insieme, la esperantista e la rotariana, nutrono l’una verso l’altra possa portare a sempre più profonde sinergie.
Attendendo di vedere lo svilupparsi del dibattito nato (ormai è trascorso un lustro) dalle pagine del “Rotary Contact”, quest’anno il Distretto 2050, nella figura della sua governatrice Anna Spalla, apre a una nuova possibilità di collaborazione, accettando la proposta di varare un e-club con lingua veicolare esperanto: club padrino è il Rotary eClub 2050, designato al coordinamento dell’impresa l’estensore di queste righe. Che, onorato dell’incarico, confida nell’aiuto e nel contributo di tutti.
Avvertenze bibliografiche. Il presente contributo riprende, rielaborandole, ed approfondisce parti delle seguenti pubblicazioni del medesimo autore, alla cui lettura almeno si rimanda direttamente per ulteriori approfondimenti e bibliografia specifica: Parlo Esperanto, Garzanti Editore, Milano 1996; “La poesia esperantista”, Poesia 205 (Anno XIX: maggio 2006) pp. 65-76 e 206 (a. XIX: giu. 2006) pp. 65-76; “Pianificazione linguistica e identità: il caso emblematico dell’Esperanto”, Metabasis. Filosofia e comunicazione (rivista internazionale di filosofia online: www.metabasis.it) 5, a. III (mag. 2008); “E non si parlerà né di politica né di religione. La lingua è solo uno strumento di comunicazione? À rebours per un recupero delle idealità dell’iniziatore della Lingvo Internacia”, L’esperanto (1998) – numero monografico; “Saussure e il dibattito (inter)linguistico sulle lingue internazionali ausiliarie a cavallo fra XIX e XX secolo”, Atti del Sodalizio Glottologico Milanese Vol. III n.s. (2010 [2008]), pp. 102-120; “Esperantujo. Uno strumento di comunicazione e di comprensione interculturale tra religioni e popoli diversi”, Prometeo n. 114 a. 29 (giu. 2011), pp. 102-111; “La Zamenhofa revo inter lingvistika kaj religia planado: interpopola dialogo kaj tutmonda interkompreno per Esperanto kaj homaranismo”, in: A. Wandel, a c. di, Aktoj de IKU Internacia Kongresa Universitato – 64a Sesio (23-30 julio 2011), UEA, Rotterdam 2011, pp. 73-83; “La esperanta espero fra creazione linguistica e costruzione identitaria”, Paideia 66 (2011), pp. 383-403.