Flavio Ferlini, dirigente Area Sistemi Informativi presso l’Università degli Studi di Pavia.
Nell’incontro del 12 ottobre 2013 tenutosi al Castello di Padernello si è discusso di etica declinandola in vari contesti. In questo mio intervento desidero affrontare il tema dell’etica ambientale che in quella occasione non fu trattato. Considero l’argomento rilevante in quanto le scelte umane hanno raggiunto dimensioni tali da comportare possibili impatti a livello planetario. Questo implica per noi l’assunzione di responsabilità impensabili fino a pochi decenni fa: inquinamento, estinzione delle specie, esaurimento delle risorse sono problemi ormai entrati nell’ambito dell’etica. Sottesi alla questione ambientale ci sono problemi di equità che riguardano sia la suddivisione internazionale delle responsabilità, dei costi e delle conseguenze degli impatti ambientali sia la qualità e la vivibilità del pianeta per le prossime generazioni. All’interno del dibattito sull’etica ambientale ci sono posizioni assai differenziate di cui darò qua una sintesi. La scienza post-galileiana viene considerata come un fattore rilevante per il sorgere della crisi ambientale in quanto ha rotto il rapporto diretto con la natura, tipico delle società pre-moderne. La critica ambientalista si è estesa progressivamente alle strutture fondanti della civiltà occidentale, descrivendola come “antropocentrica” in quanto caratterizzata da una forma di pensiero orientata al possesso e al dominio della natura. Nei primi anni ’70 lo storico americano L. White collocava nella lettura giudaico-cristiana del libro della Genesi l’origine del processo che ne avrebbe legittimato un approccio strumentale e senza limiti: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra.” (1, 28). In ottica “biocentristica” si sono sviluppate correnti di pensiero che portano a un’etica della terra, così come definita dall’ambientalista americano A. Leopold, che rifiuta d’intendere la natura come un semplice possesso degli esseri umani e la considera come una casa comune che deve essere amata e rispettata. Ancor più radicalmente biocentristico è il pensiero di A. Naess, B. Devall e G. Sessions secondo i quali coltivare una coscienza ecologica significhi soprattutto acquisire “una crescente consapevolezza della realtà delle rocce, dei lupi, degli alberi e dei fiumi – coltivare l’intima intuizione della connessione del tutto, imparare ad apprezzare il silenzio, la solitudine e la disponibilità all’ascolto”. Questi principi sono alla base del cosiddetto Movimento dell’ecologia profonda. Rolston ha proposto di contemperare i valori culturali nei quali si esprime la specificità umana con quelli della realtà naturale. La considerazione della complessità dei viventi, della biodiversità, dell’integrità degli ecosistemi e della biosfera attesta, infatti, la presenza di una pluralità di valori. Hargrove, pur ritenendo rilevanti anche argomentazioni non antropocentriche, dedica un’attenzione particolare alla fondazione di un’etica ambientale sulla base del valore estetico della natura. Le sue argomentazioni possono essere così schematizzate: 1. l’uomo ha il dovere di promuovere e di preservare l’esistenza del bene nel mondo; 2. il bello, sia artistico, sia naturale, fa parte di tale bene; 3. il bello naturale è altrettanto meritevole di quello artistico di venir promosso e preservato per ragioni non esistenziali; 4. il bello naturale dipende dall’esistenza fisica; 5. l’esigenza di promuovere e preservare l’esistenza del bello naturale è quindi anche più forte di quella – comunemente condivisa – di tutelare il bello artistico. Nel tempo, come mediazione delle posizioni estreme antropocentriche e biocentriche, si sono sempre più andati delineando i contorni di un’etica della sostenibilità. Il punto fermo della proposta etica dello sviluppo sostenibile è la centralità della persona umana quale soggetto morale. Lo sviluppo sostenibile chiama ciascuna persona, singolarmente e come membro di una comunità, ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni, decisioni e scelte sia verso la natura sia verso le generazioni future; presuppone inoltre di modificare comportamenti e stili di vita sul piano economico, scientifico, tecnologico e politico al fine di esprimere un sistema di valori rispettosi della vita nella sua totalità. Per estrinsecare il significato di “sostenibilità” è necessario introdurre i concetti di “impronta ecologica” e di “biocapacità”. L’impronta ecologica misura quanta superficie in termini di terra e acqua la popolazione umana necessita per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti prodotti. La biocapacità invece è l’estensione totale di territorio ecologicamente produttivo presente nella regione, ossia la capacità potenziale di erogazione di servizi naturali a partire dagli ecosistemi locali. Per capire se il livello di consumi è sostenibile o meno, questa grandezza va comparata con l’impronta ecologica. È possibile definire un vero e proprio bilancio ambientale sottraendo all’offerta locale di superficie ecologica (la biocapacità) la domanda di tale superficie richiesta dalla popolazione locale (l’impronta ecologica). Valori negativi indicano situazioni di deficit ambientale. La biocapacità media mondiale è di 1,78 ettari pro capite. Secondo Mathis Wackernagel, fondatore e attuale presidente del Global Footprint Network, nel 1961 l’umanità usava il 70% della capacità globale della biosfera, mentre ora l’impronta ecologica è pari a circa 2,2 ha/persona, superiore dunque alla biocapacità del pianeta. Questa situazione di squilibrio perdura dalla metà degli anni ’80; ciò significa che l’umanità sta vivendo in overshoot, ovvero al di sopra dei propri mezzi in termini ambientali. Oggi l’umanità usa l’equivalente di quasi 1,3 pianeti ogni anno, quindi la Terra ha bisogno di un anno e quattro mesi per rigenerare quello che usiamo annualmente. Scenari delle Nazioni Unite suggeriscono che se il presente trend della popolazione e del consumo continuasse, entro il 2050 avremo bisogno dell’equivalente di due pianeti per il nostro sostentamento. E naturalmente ne disponiamo solo di uno.