di Ermanno Cirillo, architetto, Socio dell’eClub 2050
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Una città che nasce dall’acqua
Arrivai a Singapore un Agosto di ormai quasi sette anni fa, da vincitore della Borsa di Studio degli Ambasciatori. Proprio la settimana del mio arrivo sull’isola, si sarebbe celebrato il National Day, il 9 Agosto, a ricordare l’indipendenza del 1965. Con alcuni amici appena incontrati, passammo la serata ad osservare gli spettacolari fuochi d’artificio da uno degli edifici simbolo di Singapore, il Marina Barrage. Si tratta di uno dei posti al quale sono più affezionato, e non solo perché porta con sé il ricordo di quella giornata, di quegli amici, di quelle ansie e speranze che mi portavo dietro da un continente lontano, ma anche perché rappresenta ciò che per me è l’essenza delle trasformazioni sul paesaggio costruito, ovvero dell’architettura: una ‘living infrastructure’, una infrastruttura che adempie ad una funzione collettiva e diventa allo stesso tempo spazio pubblico e luogo di aggregazione, invece che mero intervento tecnico-funzionale. Il Marina Barrage è infatti un bacino idrico che fornisce acqua potabile e funziona come barriera alle maree a protezione delle zone a potenziale rischio di allagamento. Intorno a questo artefatto è stato creato un parco, un museo, bar e ristoranti.
(Il Marina Barrage e Marina Bay)
Se per Calvino “Ogni Città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone”, Singapore riceve probabilmente la sua forma dall’Oceano a cui si oppone, da quando sir Thomas Raffles convinse il suo superiore Lord Hastings a finanziare una spedizione della Compagnia delle Indie per fondare un nuovo porto che potesse scalzare il predominio Olandese nell’area del sud-est asiatico.
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Il rapporto con l’Acqua è forse l’aspetto più affascinante e complesso di questa giovane nazione che ha compiuto 50 anni lo scorso anno. Si tratta di un rapporto che ne racconta la storia, la politica, la cultura, ne celebra le capacità organizzative e tecnologiche, ne stabilisce i confini fisici, e rappresenta la sua più grande debolezza ma anche forse la sua fortuna. L’acqua è quell’elemento che separa Singapore dal resto del continente, definendone la stretta estensione territoriale e le conseguenti limitatissime risorse a disposizione. Il fiume che separa Singapore dalla Malesia permise nel 1965 a quest’ultima di sbarazzarsi facilmente della piccola isola a maggioranza etnica cinese. Sono celebri le lacrime del padre fondatore Lee Kuan Yew che annunciava in televisione come il sogno di unire Singapore alla Malesia in una grande confederazione fosse fallito, per causa della poca lungimiranza (e del razzismo) della classe dirigente Malese (le famiglie dei sultani).
(L’area mercantile di Boat Quay negli anni del Dopoguerra)
Tuttavia l’acqua è anche quell’elemento che la collega con il resto del mondo, grazie al secondo porto più grande del pianeta. E ancora, l’isolamento cui Singapore è costretta, ne ha permesso uno sviluppo forse unico nella storia, segnando una distanza siderale dai paesi confinanti, trasformando 719 kilometri quadrati coperti di palme, in un laboratorio d’ingegneria sociale e politica che bisognerebbe studiare in maniera molto approfondita.
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L’urbanistica degli anni del ‘boom’ sembrava quasi negare l’esistenza del mare. Quel mare, dai cui lidi opposti, in un prometeico sforzo collettivo, si voleva cercare un riscatto impossibile, dopo la ritirata degli Inglesi, la devastazione dei Giapponesi, il tradimento dei vicini Malesi. Come a voler stabilire la propria esistenza malgrado tutto, e indipendentemente da tutto, la città si è sviluppata intorno al vecchio centro portuale, ignorando l’esistenza del mare, anzi cancellandolo, reclamando appezzamenti di terra sempre più ampi (dal 1973 al 2010 l’estensione territoriale è aumentata del 22%!). In generale, i Cinesi non amano molto le spiagge e il mare, ed è sorprendente quanto ancora oggi il rapporto con il mare sia quasi astratto, distante.
(In rosso la superficie “reclamata” dal mare negli anni)
Negli ultimi anni tuttavia sembra che la tendenza sia cambiata, una nuova coscienza verso l’acqua, non solo come risorsa ma anche come elemento ambientale e culturale, sta determinando molte scelte di pianificazione urbana (basti pensare al colossale progetto di spostamento del porto, dall’attuale posizione centrale, all’estremo ovest dell’isola, ‘liberando’ un lungomare di diversi kilometri su cui la città potrà finalmente affacciarsi, oppure a Marina Bay, luogo diventato simbolo della città).
(Il porto di Singapore)
La gestione delle risorse idriche.
Proprio nel campo della gestione delle sue risorse idriche, Singapore ha investito e investe come poche altre nazioni al mondo: si tratta di una storia di successi e sfide, che parte dagli anni ’60, quando il People’s Party salì al potere. Vista la totale assenza di falde acquifere, laghi e fiumi, fu subito evidente come l’acqua sarebbe stata un elemento essenziale per il futuro e la stabilità del paese. Nel 1961 Singapore firmò il primo patto bilaterale con la Malesia per garantirsi l’importazione di acqua fino al 2011. L’anno seguente, nel 1962, fu stipulato un secondo trattato che scadrà nel 2061. Nonostante anni di negoziati per garantire la continuità dell’approvvigionamento post-2061, i governi dei due paesi non sono giunti a nessun accordo: al momento non ci sono certezze sul futuro dell’acquedotto malese. Anche in virtù del fallimento di queste trattative, il governo di Singapore ha iniziato, fin dagli anni ’70, a implementare una gestione olistica delle risorse idrica che si fonda su tre principi basilari:
- raccogliere ogni goccia di acqua
- riutilizzare l’acqua all’infinito
- aumentare la desalinizzazione delle acque marine