Andrea Botti, avvocato, socio del Rotary eClub 2050.
Questo mio intervento vuole, in qualche modo, prendere spunto dalle stimolanti e persuasive riflessioni che Domenico ci ha proposto sul tema “Rotary e Unione Europea”. Il destino dell’Unione Europea è, infatti, un tema centrale e cruciale perché nessun Paese che vi appartiene può più pensare, ragionevolmente, di sottrarsi al processo di integrazione. Recedervi oggi dimostrerebbe una miopia politica e culturale di tale portata da risultare verosimilmente fatale.
Eppure, pur consapevoli di essere indissolubilmente legati l’uno all’altro, scontiamo un comune senso di frustrazione e delusione perché avvertiamo che l’unità dei popoli europei non è ancora compiuta e non si riesce nemmeno a scorgere l’orizzonte di questa unificazione. L’unione monetaria e una fraintesa idea di globalizzazione hanno probabilmente indotto a ritenere, in modo affrettato, che l’Europa fosse ormai a un passo dal suo traguardo naturale: unirsi.
Come ha osservato Domenico, tuttavia, né il “villaggio globale” né il “mercato globale” possono fare le veci di “valori comunemente percepiti dai singoli come fondamento della propria cultura”, valori che “permangono tali pur nella diversità di lingua, storia, costumi, religione ed assumono per essi valori universali”.
Mi domando spesso le ragioni di questo stallo. Ovviamente, non è possibile e non sarei neanche in grado di individuarle tutte. Mi limito, quindi, a formulare alcune ipotesi.
L’Unione Europea di oggi sconta, probabilmente, le sue origini. I Padri fondatori dell’Europa si sono, infatti, trovati ancora a pochi passi di distanza da due grandi guerre che avevano sconvolto il nostro continente, uscitone impoverito e sotto cumuli di macerie. Hanno, quindi, fatto la scelta più logica: dare all’Europa un mercato comune che, attraverso la leva economica, potesse portare ricostruzione, prosperità e una pace stabile e duratura.
L’impostazione originaria del progetto di integrazione europea è stata, quindi, di natura marcatamente economica. L’Europa nasce come mercato libero e soltanto dopo molti decenni si è cercato di innestare sul suo tralcio dei contenuti, politici e culturali, che le erano rimasti fino ad allora estranei e che, forse, lo sono anche oggi.
Il fraintendimento, a mio avviso, nasce dal fatto che l’Unione Europea continua attualmente ad avere come preponderante, se non esclusiva, finalità quella di amministrare un mercato economico aperto, senza porsi altri particolari obiettivi di unificazione politica, culturale o etica.
Si tratta, infatti, di un’unione di Stati che rimangono ben distinti, autonomi, indipendenti tra loro. All’Unione, ogni Stato membro concede solo una piccola porzione della propria sovranità, e quasi esclusivamente in materia economica (dazi, dogane, circolazione delle persone, merci e capitali, trasporti, concorrenza). Sotto questi aspetti, l’Unione Europea non è certamente paragonabile agli Stati Uniti d’America.
Lo stesso Trattato di Maastricht, che l’ha istituita nel 1992, assegnava all’Unione la finalità di “promuovere un progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile, segnatamente mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale e l’instaurazione di un’unione economica e monetaria che comporti a termine una moneta unica, in conformità delle disposizioni del presente trattato” (art. B).
Ne è, del resto, significativa conferma la circostanza che solo nel 2004 venne avvertita l’esigenza “politica” di dare più sostanza all’Unione e i Governi firmarono allora il “Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa”. Tale trattato, però, non fu mai ratificato per le resistenze di alcuni paesi (in Francia e Paesi Bassi il referendum ebbe esito negativo).
Il Trattato di Lisbona, in vigore dal 2009, ha nuovamente cercato di modificarne la natura, dichiarando solennemente che l’Unione si prefigge di “promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli (…) in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere” (art. 3). Anche in questo caso, gli obiettivi proclamati sembrano più programmatici che non cogenti. Del resto, le competenze esclusive effettivamente attribuite all’Unione sono: a) unione doganale; b) definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno; c) politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro; d) conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; e) politica commerciale comune (art. 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione).
La stessa “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea” (nata dalle ceneri della Costituzione per l’Europa) è stata solo richiamata in questo trattato ma non inserita nel suo corpo, con la conseguenza che tutta quella lunga elencazione di principi e diritti che vi sono enunciati sembra più una enumerazione di buoni propositi che non il riconoscimento di diritti effettivamente reclamabili.
Il senso di frustrazione largamente avvertito può, allora, dipendere dalla percezione di questi limiti, aggravati dal fatto che tutta l’azione dell’Unione sembra, oggi, limitata e ridotta, a torto o ragione, ai soli vincoli di bilancio che “l’Europa ci chiede”, ai sacrifici che “l’Europa vuole”.
Questa Europa, di fatto, non sembra avere contenuti, non sembra rappresentare valori, non incide sulle nostre vite se non, negativamente, per il fatto di obbligarci a continue imposizioni fiscali, che ci mortificano. In effetti, non sembra darci la speranza di una pace sociale, di una società più equa e più giusta, di una effettiva uguaglianza. La stessa resistenza di diversi Paesi a una più stretta integrazione genera un sentimento di disillusione e fallimento, oltre che di ostilità.
Cercando di ricondurre queste riflessioni a unità, penso allora che la causa preponderante dell’attuale situazione di stallo debba essere imputata alla politica. La politica ha una funzione essenziale in ogni ordinamento democratico e sbaglierebbe gravemente chi ritenesse di poterla agevolmente sostituire, ad esempio, con dei “tecnici”, degli esperti contabili, degli amministratori. La politica, infatti, ha la funzione di governare operando delle scelte e progettando quello che un paese sarà nel suo futuro, senza nascondere la testa sotto la sabbia.
A mio giudizio, la politica europea degli ultimi venti anni ha consapevolmente disegnato l’Europa come è oggi, e con i limiti che ha oggi, perché non ha avuto la lungimiranza di dare un’anima a questo grande progetto di integrazione, probabilmente per difendere posizioni e interessi di parte. Sarebbe stato necessario, infatti, condurre le varie nazioni, passo dopo passo, a superare i diversi nazionalismi e campanilismi per “affermare come valore condiviso l’appartenenza ad una comunità più ampia di uomini e donne di cui vanno rispettate le diversità con spirito laico e aperto”, come ha sottolineato Domenico.
L’Europa, allora, rimarrà un’Unione di Stati e non diventerà, invece, un’Europa Unita finché tutti gli Stati membri non decideranno di cederle fette via via più grandi della propria sovranità; finché gli europei non potranno votare propri rappresentanti in un Parlamento che abbia effettive potestà legislative in materie che toccano la vita e i diritti sostanziali delle persone; finché questo Parlamento non potrà esprimere un proprio Governo che non sia più designato dai governi locali.
L’insufficienza della politica non necessariamente impedirà, però, un pur lento processo di integrazione. La magistratura svolge spesso le funzioni vicarie della politica quando questa è miope o incapace, per sua inettitudine, di indicare i valori fondamentali attorno ai quali una comunità può costruire le proprie fondamenta. Ciò avviene anche per quanto riguarda l’edificazione di un’Europa unita.
Firmata a Roma il 4 novembre 1950, entrata in vigore nel 1953, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) è stata ratificata dai 47 Stati che appartengono al Consiglio d’Europa. La Convenzione garantisce i diritti fondamentali, civili e politici, non solo ai cittadini degli Stati membri ma anche a tutti coloro che si trovino sotto la relativa giurisdizione. A propria volta, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) è una Corte internazionale istituita nel 1959. Essa si pronuncia sui ricorsi individuali o statali inerenti presunte violazioni dei diritti civili e politici stabiliti dalla CEDU.
La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che nulla ha a che vedere con l’Unione Europea e con le sue istituzioni, da circa una decina d’anni sta assumendo un’importanza via via maggiore (e, forse, all’inizio non preventivata) nei singoli ordinamenti dei paesi che l’hanno ratificata, tanto da porsi, ormai, come prodigioso (e, a volte, dirompente) fattore unificante nell’ambito delle legislazioni dei 47 Stati membri.
Senza entrare in inutili tecnicismi, ma solo per rendere l’idea della penetrante efficacia dei principi della CEDU nell’ordinamento italiano, basti osservare che il giudice nazionale è tenuto ad applicare immediatamente le relative norme, anche quando esse non siano conformi al nostro diritto, ponendosi come unica condizione per la loro applicabilità che non contrastino con le norme costituzionali. Non solo, lo stesso giudice nazionale non può neanche discostarsi dall’interpretazione che la Corte EDU abbia dato alle norme della Convenzione perché solo la Corte di Strasburgo può interpretarla.
E’ allora evidente che, nell’inerzia della politica, e pur non competendo alla giurisprudenza colmarne le carenze, la CEDU sta costringendo 47 paesi europei a modificare le proprie legislazioni, rendendole mano mano più omogenee su temi estremamente sensibili come quelli dei diritti fondamentali dell’uomo. Facendo alcuni esempi, la Corte EDU ha, tra l’altro, riconosciuto o stabilito:
a) il diritto dei migranti a non essere respinti alla frontiera e trasferiti verso paesi che possano applicare loro ritorsioni (Hirsijama c/ Italia, 23/2/12); il diritto per uno straniero irregolare di contrarre matrimonio (O’Donoghue c/ Regno Unito, 14/12/10); il diritto per lo straniero di ricevere il permesso di soggiorno dal paese nel quale sia nato suo figlio (R.D.S. c/ Olanda, 31/01/06); il divieto di espulsione per lo straniero che abbia tutta la famiglia nel paese che lo vuole espellere (Omojudi c/ Regno Unito, 24/11/09); il diritto dell’apolide di ottenere, in tempi ragionevoli, il permesso di soggiorno (K.C. c/ Lettonia, 22/6/06); il diritto dello straniero a non essere estradato verso paesi nei quali riceverebbe trattamenti disumani o degradanti (Said c/ Olanda, 5/7/05; K. c/ Grecia, 27/6/06; Trabelsi c/ Italia, 13/4/10); il diritto a non essere trattenuto irregolarmente, senza tutele e per periodi eccessivamente lunghi, presso centri di raccolta di immigrati irregolari (Said c/ Regno Unito, 29/1/08);
b) il divieto di reclusione in carceri sovraffollate (Torregiani c/ Italia, 8/1/13);
c) il diritto di revocare il consenso all’impianto degli embrioni (Evans c/ Regno Unito, 10/4/07); il diritto di eseguire la diagnosi e la selezione preimpianto degli embrioni (Costa-Pavan c/ Italia, 28/8/12); il diritto di eseguire la fecondazione eterologa (S.H. c/ Austria, 1/4/10, sentenza poi riformata dalla Grande Camera);
d) il diritto, per una persona non sposata e omosessuale, di adottare un figlio, se tale diritto sia stato già riconosciuto a persone single eterosessuali (E.B. c/ Francia, 10/4/07); il diritto per un partner omosessuale di subentrare nel contratto di locazione, ove tale diritto sia già riconosciuto alle coppie more uxorio eterosessuali (Kozak c/ Polonia, 2/3/10); il diritto di cambiare sesso (Goodwin c/ Regno Unito, 11/7/02) e di sposarsi con transessuali (K.B. c/ Regno Unito, 7/1/04);
e) il diritto a essere informati sui rischi sanitari dovuti all’inquinamento ambientale e il diritto a un ambiente sano (Lopez Ostra c/ Spagna, 9/12/94; Tatar c/ Romania, 27/1/09);
f) il diritto di ricevere dalla Stato, tempestivamente, i rimborsi per crediti fiscali e le sovvenzioni statali (Buffalo s.r.l. c/ Italia, 3/7/03; Plalam s.p.a. c/ Italia, 8/2/11);
g) il diritto delle popolazioni nomadi (Rom) di occupare alcuni terreni per stabilirvisi e il diritto di mantenere il proprio stile di vita tradizionale (Chapman c/ Regno Unito, 18/01/01; Nachova c/ Bulgaria, 6/7/05).
Per altro verso, la Corte EDU ha stabilito che non viola il principio di libertà religiosa: il divieto di indossare il velo islamico (Sahin c/ Turchia, 10/11/05); l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche (Lautsi c/ Italia, 18/3/11); l’inserimento di contenuti cristiani in programmi scolastici (Folgero c/ Novergia, 29/6/07).
La conclusione di queste mie riflessioni è, allora, che la politica è probabilmente il male ma anche la cura. Abbiamo veramente bisogno di una buona politica, una politica lungimirante, qui in Italia come in Europa. Abbiamo bisogno che la politica riprenda il suo ruolo, che oggi ha spesso delegato ad altri, e lo svolga tornando a pensare al futuro e al bene degli uomini e delle donne e non alla piccola convenienza legata alle successive elezioni.
E in questo ambito, con questo spirito di servizio, molto ha a che fare e può fare il Rotary.